Finemateria, design come racconto.

Finemateria, design come racconto. 

Intervista a una nuova generazione
di designer italiani 

Abbiamo conosciuto Finemateria durante un’edizione di Factory Market, dove attraverso un allestimento minimale, accurato e delicato, il pubblico veniva discretamente invitato a un approccio agli oggetti esposti molto diverso da quello che ci si aspetta a un market.

Si trattava di quattro oggetti metallici, dalle linee pulite e rigorose e a prima impressione potevano sembrare vasi, ma anche porta oggetti, portafrutta o potevano esistere semplicemente al fine di veicolare emozioni, era meraviglioso perché stimolava la creatività dei visitatori.

L’equilibrio di questi oggetti, il loro colore, il loro materiale, il modo in cui erano esposti, il modo in cui la luce toccava e rifletteva su queste superfici, ogni dettaglio portava a chiedersi come fossero stati realizzati, quale fosse la loro storia e dove sarebbero finiti nella moltitudine infinita di oggetti prodotti nel mondo.

Gran parte del nostro lavoro con Factory Market si basa sulla ricerca dell’emotività degli oggetti, in quanto portatori delle storie e delle energie di chi li ha creati e quindi della società stessa, così è stato naturale chiedere alle menti dietro Finemateria di raccontarci la loro storia e la loro visione, come testimonianza preziosa di chi decide di esprimersi attraverso una pratica come il design, in Italia, oggi.

Stefano Bassan e Gianluca Sigismondi  sono i fondatori di Finemateria, studio di design che dal 2020 esplora il prodotto attraverso lo studio dei processi e materiali, con particolare attenzione all’aspetto sensoriale. 

Stefano e Gianluca condividono questa visione fin dai tempi dell’università, dove cominciano a consolidare alcune collaborazioni con alcuni studi di design, dando così vita al percorso che li ha portati fino a DOPO?, uno spazio per il lavoro culturale e la ricreazione condivisa, dove oggi risiede il loro studio, nel quartiere Corvetto di Milano, insieme a altri progetti come Parasite 2.0, Bianca Felicori/Forgotten Architecture, Carlotta Franco, Salvatore Peluso, PLSTCT e Fosbury Architecture, progetti differenti, ma uniti dal fine di esplorare il rapporto fra il lavoro e la produzione culturale.

Finemateria si occupa di produzioni proprie e di lavori su commissione attraverso la consulenza, con una gamma di progetti espositivi e curatoriali che vanno dai prodotti al design degli spazi, indagando valori come la lentezza e il tempo (Milano – Vita Lenta – giugno 2022), o tematiche come i rifiuti industriali (Milano – Window Display Foamy Fantasy  – settembre 2021)

In questa breve intervista ci raccontano di più.

La nascita di ogni progetto creativo racconta anche una storia umana, qual è la vostra?
Come siete diventati insieme Finemateria?

G: La storia umana alle nostre spalle è un’amicizia che poi si è incontrata anche in ideali e prospettive lavorative. Prima di “designer duo” siamo stati amici e compagni di università e attività ludiche correlate.

Poi abbiamo cercato di cambiare il funzionamento che accompagna Milano e l’Italia quando si vuole lavorare. Ossia provare a non farsi sfruttare e diventare noi stessi una proposta sul mercato. Il resto è una conseguenza!

Qual è la cosa migliore dell’essere creativo e vivere del proprio progetto?

G: Variare, non ho ancora abbastanza esperienza ma al momento noto che le giornate di lavoro sono molto varie e mi piace!

S: Sperimentare, socializzare, mettersi in discussione, fissarsi dei nuovi obiettivi e alzare l’asticella continuamente.  Ogni giorno mi sento motivato e felice di quello che sto facendo.

Qual è invece la difficoltà maggiore per un giovane designer italiano determinato a vivere del proprio lavoro?

G: Credo che la difficoltà è bella e deve esistere, mentre le opportunità non devono mancare.
Aggiungo, secondo me la parola ‘giovane’ nel settore design è qualcosa di sovrautilizzato, uno strumento editoriale per variare la comunicazione. Una classifica di ‘migliori giovani designer’ potrebbe essere tranquillamente quella dei ‘migliori designer’.
La difficoltà è proprio quella di non cadere nella trappola di essere ‘i giovani’.

S: Secondo me bisogna indagare il valore della parola “determinato”. 
Le difficoltà ci sono, soprattutto a livello economico, ma se si vuole arrivare ad un risultato le offerte sono molto ampie e bisogna trovare il giusto supporto.

Nella nostra piccola esperienza abbiamo incontrato molte persone che erano estremamente connesse al nostro modo di pensare e ci hanno aiutato in tanti fronti. Sono nate bellissime collaborazioni, ci hanno aiutato a migliorare sia concretamente che come persone.

Se doveste scegliere un designer il cui percorso creativo e umano vi ha ispirato, chi sarebbe?

G: Enzo Mari e Sottsass sono già due ma rappresentano una bella struttura, Alvaro Siza è un architetto lo so, ma ha una profondità che mi è sempre piaciuta. Gio Ponti è chiaramente una guida. I fratelli Bouroullec, Stefan Diez sono riferimenti contemporanei importanti. Craig Green ha una capacità di astrazione come pochissimi. Veramente non ho un nome in cui trovo tutto.

S: Sottsass per la sua capacità intellettuale ma sempre umile nel comunicare e discutere della vita. Tramite il design, la fotografia, la scrittura, ha affrontato diverse tematiche cambiando strumento.  
Super attuale è anche la capacità di condivisione e di fare gruppo, movimento: da Global Tools a Memphis. 
Un’elegante leggerezza che ha portato a far emergere altri grandi collaboratori, uno su tutti Shiro Kuramata.

Ci raccontate del vostro studio e di cosa significa quello spazio per voi?

G: Credo trasmetta abbastanza di noi, è uno spazio che riesce a darci molto.  Anche se al momento tengo più a lui che alla casa e questa cosa non mi piace!

S: Avere la possibilità di trovare uno spazio che non sia una scrivania in casa è già un traguardo bellissimo. Il fatto di avere il proprio spazio di lavoro, ci ha aiutato mentalmente anche a darci nuove motivazioni. E’ un luogo completo: è silenzioso quando cerchi concentrazione, diventa un salotto quando vuoi creare delle connessioni.

Achille Castiglioni, Vico Magistretti, Gio Ponti, Gaetano Pesce, Enzo Mari, Alessandro Mendini…l’Italia è casa di molti designer che ancora oggi sono il simbolo del concetto stesso di design e che hanno aperto la strada a nuove visioni future, qual è il vero senso dell’ essere un designer oggi? 

G: Il senso è creare interesse e convincere i musei, le fondazioni, gli sponsor, le aziende a fidarsi di noi altri. Andare oltre la riedizione della riedizione delle riedizione.. che sicuramente garantisce qualcosa ma non crea mai un ciclo sano. Alcuni paesi più a nord l’hanno capito da qualche anno e i fatturati non sono male! No?

S: Ognuno trova la sua strada e la propria vision. C’è chi sta lottando per la sostenibilità, chi si basa sull’educazione, chi ancora dà tutto quello che ha nel prodotto.

Non c’è una condizione che sia giusta, credo nello storytelling, cioè nel racconto del valore che si attribuisce all’argomento. 

La nostra generazione deve avere la forza di proporre nuovi processi per scardinare alcuni sistemi mentali: dalla ricerca al prodotto, fino alla comunicazione e perché no anche la vendita.

Secondo la vostra visione e la vostra personale esperienza il design potrebbe davvero cambiare la società e le abitudini di consumo in modo inclusivo o è un concetto per pochi?

G: Può cambiare tante cose quando una persona si interessa ad esso, è una proposta di intrattenimento come le altre. Per questo comunicare ed attrarre fa parte del lavoro.

S: Il design è racconto, questo vuol dire saper rendere accessibili i contenuti di un processo.

Oggi stiamo “educando” lo spettatore a capire il racconto. Può essere per pochi o per tanti ma deve essere comprensibile, condivisibile e senza sovrastrutture.  Il dialogo deve generare interesse e costruire ponti, non muri. 

A cosa state lavorando in questo momento?

Stiamo sviluppando una ricerca legata al letto in collaborazione con Bolzan. Presenteremo la ricerca in un’installazione a Milano dove ci sarà modo di avere un book con tutto il racconto di essa. Il tutto si concretizzerà in un prodotto nella seconda metà dell’anno.

Poi abbiamo diversi progetti in finalizzazione, alcuni sempre più di prodotto con un approccio leggermente più commerciale ed altri installativi e concettuali.

Sarà un bel 2023!

Quale sarebbe la cosa più bella che potrebbe accadervi come designer?

G: Non limitarsi nel lungo periodo ad essere solo un designer, il processo alle spalle di un progetto è applicabile a molto altro nella vita. 

S: Un viaggio lungo e un’esperienza totalmente immersa in una cultura diversa in modo da respirare a pieno uno stile di vita differente.

“Il design è racconto, questo vuol dire saper rendere accessibili i contenuti di un processo. Oggi stiamo “educando” lo spettatore a capire il racconto.”

Foto di: Nicolò Bressan e Factory Market

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